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In memoria di Pino Careddu, direttore di Sassari Sera, l'ultimo dei muckrakers

(21 gennaio 2008) Succede da quando ho lasciato la Sardegna. Ci sono due cari amici sardi, in particolare, che, col tempo, hanno assunto l’obbligo del necrologio telefonico. Nel senso che, quando mi chiamano al telefono, a volte lo fanno per comunicarmi la morte di un amico comune, di un conoscente, di una persona a cui ero particolarmente legato negli anni trascorsi in Sardegna. Quando squilla il cellulare e vedo quei due numeri o i nomi “Bruno” o “Pasquale” impressi sullo schermo, mi viene da pensare: “E adesso chi è morto?”. (Insomma, certo che esagero; per fortuna, succede raramente: non c'è nessuna ecatombe di amici in Sardegna).
Così è successo ieri, una domenica nebbiosa, qui a Milano. Il primo a telefonarmi, da Sassari, è stato Bruno, quasi un fratello, più che un amico: “È morto Pino Careddu, l’hanno detto al giornale radio”.

Pino. Avevo 21, forse 22 anni, quando pubblicò il mio primo articolo. E da quel battesimo, sino ai primi anni Novanta, la frequentazione si fece intensa; sino a che abbiamo cominciato ad ignorarci con reciproca soddisfazione (soltanto un incontro e un abbraccio frettoloso, qualche anno fa, in occasione del funerale di Nello Di Salvo). Forse perché non mi era piaciuta la sua battaglia in difesa di certi suoi amici (ex servizi) di cui si parla nell'intervista di Pironti che cito in coda. Forse per “futili motivi”, come si direbbe nei più efferati omicidi. Chissà. Quasi 15 anni, comunque, in cui ho elevato Pino al ruolo di maestro di scrittura e personal trainer. Perché Pino era questo: un bravo scrittore. Anche se faceva finta di non saperlo, questo maddalenino capace di una velenosa ironia e diventato sassarese strafottente, personaggio avventuroso e non catalogabile, colto, arguto, rissoso e manesco, eppure elegante, bon vivant e grande cuoco, viaggiatore curioso, di cui non ho mai capito né digerito la sua passione per lo zoo della politica e di tutto ciò che gli ruota intorno, ma di cui ho sempre apprezzato, condiviso, molte sue curiosità (con molti distinguo: per esempio, lui amava Céline, io no) e soprattutto l'interesse per la scrittura.

Simpathy for the devil. Quando ho conosciuto Sassari Sera? Negli anni Sessanta, ai tempi del liceo. Tempi di scioperi, occupazioni e assemblee. Il liceo classico, che io frequentavo con alterne sfortune, era un posto abbastanza tranquillo. Più agitato era il liceo scientifico, retto da un preside piuttosto burbero e molto temuto, un prete molto noto in Gallura. Sassari Sera gli dedicò una colonna, descrivendolo come “un prete con la camicia nera sino ai piedi”. Era un’espressione micidiale: prete e fascista. E fu lì che scattò la scintilla, la mia simpatia per il giornale di Pino.
Questo per quanto riguarda il giornale. A Pino arrivai più tardi. Il tramite fu il mio amico Lucio “Blue Eyes”, architetto di giorno, fotografo di notte. Figlio d’arte (il padre era il leggendario “paparazzo della Costa Smeralda” Nello Di Salvo, amico e partner di Pino, che tra l'altro aveva fatto da testimone al matrimonio di Lucio e Piera), fotografo della Swinging Porto Cervo degli anni Sessanta, non disdegnava la cronaca nera, su cui aveva cominciato a lavorare da minorenne precoce, avanti e indietro per la Sardegna, quattro mini (la sua passione) di cui qualcuna distrutta. In quel periodo Pino cercava qualcuno che gli facesse delle corrispondenze da Olbia; Lucio gli aveva indicato il mio nome, e così gli avevo inviato alcune registrazioni dei miei programmi in una radio privata. Qualche tempo dopo, avevo una mia pagina su Sassari Sera.

Parla con te. Ovvero: se non trovi le notizie, cerca gli argomenti. Quando l’ho conosciuto, Pino Careddu scriveva sull’Olivetti Lettera 32. Era uno dei suoi due strumenti di lavoro. L’altro era il registratore, che stava a Pino come la Leica stava a Cartier-Bresson, padre del moderno fotogiornalismo, quando diceva che la Leica era un’estensione del suo sguardo. Per Pino il registratore era un’estensione della sua voce, più flessibile della macchina per scrivere.
La Leica era uno strumento di candid photography, il registratore uno strumento di candid journalism: la parola fotografata. Pino usava il registratore anche nei suoi viaggi in auto, per esempio nei trasferimenti da Sassari a Cagliari: parlava, registrava, e poi sbobinava e scriveva i suoi pezzi. E parlava come scriveva, cioè tanto. E se non aveva un interlocutore, lo inventava. Mi spiego. Pino, che ovviamente abitava a Sassari, aveva anche una casa ad Alghero: si affacciava sul porto, godeva di una bella vista, e gli era stata data in affitto dalla vedova di un suo amico purtroppo defunto (credo che fosse un magistrato). Lì aveva rinunciato al telefono, alla comunicazione con l’esterno, e così poteva ritagliarsi delle strategiche, salutari pause di solitudine. Un giorno, Pino mi disse che con il vecchio proprietario, il suo amico scomparso, faceva delle “lunghe e animate discussioni”. Sul momento mi venne da ridere pensando a quel mix micidiale di logica & soprannaturale, e gli dissi: “Beh, certo, anch’io dopo una mezza bottiglia di vernaccia comincio a parlare con i morti”. Ma Pino era serio, tanto serio che anch’io provai a farlo. E devo dire che oggi mi riesce abbastanza bene: difficilmente vado a dormire, se prima non scambio due battute in forma di pensieri con le persone care che non ci sono più. Se poi vogliamo giustificarci con il conforto delle citazioni letterarie, con Albertine disparue siamo subito serviti: "L’être ne meurt pas tout de suite pour nous, il reste baigné d’une espèce d’aura de vie qui n’a rien d’une immortalité véritable mais qui fait qu’il continue à occuper nos pensées de la même manière que quand il vivait. Il est comme en voyage".

Ma dicevamo di un altro viaggio, quello sui tasti della Lettera 32. Un mito disegnato da Marcello Nizzoli nel 1963, successore dell’altrettanto popolare Lettera 22. Macchine da museo d’arte moderna, spettacolo di quel genio italiano che la leggendaria azienda di Adriano Olivetti ha utilizzato sempre al meglio. Proprio a Olivetti si deve il layout di tastiera QZERTY, comodo, direi quasi naturale, che diventò lo standard italiano, e che non a caso venne adottato da Apple, azienda notoriamente innovativa e attenta al rapporto friendly con l’utente. Oggi lo standard più diffuso è il layout QWERTY, un orrore contronatura imposto da un omino occhialuto con i calzini bianchi, Bill Gates, purtroppo adottato in tempi più recenti anche dalla stessa Apple. E dico “purtroppo” perché, io che sono un mac user da sempre, sperimento questa sofferenza ogni giorno.
La Lettera 32 era una macchina solida e affidabile, portatile e maneggevole: pesava quasi 6 Kg, un’enormità se paragonati al peso piuma di un notebook moderno, ma allora, quando le automobili non avevano il servosterzo, si era veri uomini, perbacco, mica signorine. E poi, pestare su quelle macchine per scrivere, soltanto quell’atto era già un esercizio di stile, un genere letterario. Se penso alle tastiere dei nostri computer, oggi, mi viene da pensare che gli scrittori abbiano messo ai piedi le scarpette en pointe, da ballerina. La Lettera 32, invece, era un’altra storia. Il rumore tipico di quei tasti era ritmo, roba da bopper strambo. Non a caso Pino mi faceva pensare a Charlie Parker, un altro Vergine leonino. Stravagante, colto e brillante. Eccessivo. Un giorno mi disse che, da giovane, non pensava che sarebbe arrivato a 35 anni: gli anni di “Bird”.
Lo stile molto personale di Pino si reggeva su un grande talento, e sulla sciolta capacità di improvvisazione che si abbatteva sulla Lettera 32. Conservo un’immagine, legata proprio a quella macchina. Ma, prima di esporla in pubblico, è necessaria una premessa. Avevo esordito su Sassari Sera con un servizio sul Living Theatre di Julian Beck, che aveva accompagnato la “Prima marcia internazionale degli antimilitaristi non violenti” del 1976 promossa da Partito radicale, War Resisters International, Lega degli obiettori di coscienza e Movimento non violento (che non a caso si era conclusa in Sardegna - l'Isola ha la più alta percentuale in Italia di servitù militari, il 61%, con circa 35mila ettari di territorio vincolati, è sede di carceri speciali, roccaforte della Nato, sede di poligoni di tiro, luogo di sperimentazioni ed esercitazioni militari di terra, mare, aria - con violente cariche della polizia a La Maddalena: ministro degli Interni dell'epoca, Francesco Cossiga). Un buon lavoro accompagnato dalle foto del mio amico Rino De Murtas, tanto che in seguito Pino mi affidò un’intera pagina, dedicata alle problematiche giovanili. Per anni sono andato avanti occupandomi di queste cose (allora si chiamava "cultura alternativa"), scrivendo di costume, musica, libri, storie “altre” non contemplate nella cucina dei giornali sardi. Ma Sassari Sera era, per definizione, un “giornale politico d’informazione”, un giornale con una storia particolare, nato per una ragione semplice: fare uscire una notizia che gli altri giornali avevano deliberatamente taciuto (se ne parla nell’intervista riprodotta di seguito). E, anche se spesso trasfigurata dall’irrisione del potere tipica della “cionfra” sassarese e dall’attitudine a non prendere sul serio le cose maledettamente serie, la notizia veniva prima di tutto. E Pino insisteva perché mi occupassi della notizia, in particolare di cronaca politica locale, che non era il mio forte. Anzi, non mi interessava. Però alla fine trovammo un compromesso: me ne occupai, ma in chiave satirica, insomma in linea con il fogliaccio di Sassari. E le cose non andarono male: pasticciavo molto, ero incosciente, a volte pure cazzone e tiravo la fionda come un ragazzo di strada. Però, malgrado tutto, Pino pubblicava ogni cosa, anche se non era d’accordo; anzi, si metteva persino di traverso, quando arrivavano le minacce di certi politici (ricordo, con gratitudine, un particolare: quando gli telefonò quel socialista, politico-impresario, a cui disse: “Guarda, per come lo conosco, ti posso dire che, se lo minacci, fa di peggio”). In dieci anni, credo che non abbia modificato neanche una virgola. A parte una volta, in cui non si limitò a cambiare la virgola, ma riscrisse tutto. Completamente. E quella fu la grande lezione di Pino.
Era andata così. Nella mia cittadina, testa di ponte con la speculazione dei grandi immobiliaristi e del mercato del subappalto, c’erano stati degli arresti: colletti bianchi, tecnici del comune. La classe politica locale era in fermento, ci si aspettava chissà quale sfacelo. Bisognava occuparsi della questione, ma io non avevo notizie. Costretto a scrivere un pezzo, avevo fatto melina producendo due cartelle di banalità, che avevo consegnato personalmente a Pino, a Sassari. Pino controllò il pezzo, e mi disse che potevamo modificarlo, creare più attenzione e aspettative. Ma come: non avevamo nessuna notizia esclusiva, niente oltre a quello che avevano scritto gli altri giornali. Ma, appunto, questo era il bello: Pino era anche un grande cuoco, e un grande cuoco ha la straordinaria capacità di reinventare a cena gli avanzi del pranzo. Si mise alla macchina per scrivere, la sua Lettera 32, strumento di tortura e di redenzione, posizione eretta, mani morbide, dita agili, tocco deciso, e via a pestare, con un ritmo da bebop, una solida struttura blues da cui lanciare l’assolo, l’improvvisazione. Parlava a voce alta e scriveva; dettava a se stesso, velocemente, in presa diretta, senza guardare indietro, senza ripensamenti. Parlava e scriveva. Se io non avevo notizie, lui aveva argomenti: questa era la differenza. E così costruì il pezzo in poco tempo: attacco perfetto, chiusura fulminante, nessuna correzione, giusto due piccole cancellature con la solita penna stilografica. Lo scrisse dando ascolto alle parole, le sue, rovistando nell’archivio delle conoscenze pericolose e della sua ottima memoria di cronista, scoprendo i nervi di tutti gli interessi e dei collegamenti possibili in un territorio che conosceva molto bene: partì dalla notizia, per parlare dei personaggi, degli attori noti ma soprattutto delle voci fuoricampo, sistemandoli sulla scacchiera. Parlava e scriveva. Cominciò con i colletti bianchi, passando attraverso allusioni e collusioni, per finire con la banda della Magliana. Un bel pezzo. E infatti, quando il giornale uscì dalle mie parti, le edicole esaurirono le copie in un attimo.
Adesso rifletto su quell'episodio: Pino si era sottoposto a quella osservazione clinica e comportamentale da parte di un suo collaboratore, non tanto per esibire e scoprire i propri neurotrasmettitori, ma per una seduta di allenamento, per uno stimolo mentale, per motivare e formare un runner evoluto che sa gestire il ritmo e le ripetute lunghe. E infatti quella lezione diede i suoi frutti: mi autoinvitai a cena da un amico amministratore delegato di una nota azienda attiva nell'edilizia e sufficientemente ciarliero, e da lì cominciai a occuparmi di altri argomenti con un approccio meno timido. Al primo della serie, Pino diede un titolo più semplice di quelli dissacranti, divertenti, tipici di Sassari Sera, ma eloquente: "Cemento e malavita". Erano i primi anni Ottanta, e io, grazie a Pino, avevo passato la mia linea d'ombra.

Parla come leggi. E adesso che è tempo di necrologi, di perdoni e di rimpianti, ho letto gli elogi di qualche suo collega giornalista. E mi viene in mente un episodio accaduto molti anni fa. Discutevamo, parlavamo di un suo collega. Per farla breve, per chiudere il discorso, Pino mi disse, con una smorfia di delusione: "Gli avevo regalato le Lettere dal carcere di Gramsci. Qualche anno più tardi mi capita di andare a casa sua, e nello scaffale vedo il mio libro: era ancora incellofanato. Non lo aveva neanche aperto". Come fa, un giornalista sardo, a non avere, non dico mai letto, ma neanche sfogliato le Lettere di Gramsci?




Scrivere di tutto, scrivere per niente. Un altro episodio? Riguarda il destino del ghostwriter. Avevamo inventato e scritto, fifty fifty, il primo libro di un amico comune. Avevo accettato soprattutto per divertimento, più che per riconoscenza nei confronti del mio maestro di scrittura creativa: metà la scrivo io, metà la scrivi tu. Ne era venuto fuori un buon libro, curioso: la mia scrittura, se non combaciava con la sua, almeno si completava. Tanto che Epoca lo citò, in una recensione, come uno dei migliori cento libri dell'anno. E non solo: paragonò il suo autore a Truman Capote. Quando "Truman Capote" mi offrì metà dei diritti, rifiutai educatamente, o meglio gli suggerii di donarli alla ricerca sul cancro. "Nessuno deve niente a nessuno", come mi diceva Pino.
Mi era capitato diverse volte di fare il ghostwriter, ma sempre per amicizia (a parte una volta in cui preparai uno speech, pressato dalle insistenze di un amico, per il padrone di un'importante industria alimentare, ma si trattava di un innocuo discorso rivolto alla forza vendita). Però non capivo se fosse bene o male aiutare la carriera degli altri in quel modo. In genere, quando avevo di questi dubbi, mi consultavo con Pino. Che, in quel caso, liquidò la questione con poche parole: "Quando scrivo per gli altri, scrivo per me stesso".

Lingue tagliate e bocche scucite. Un altro episodio chiarisce meglio un passaggio dell’intervista già citata di Pironti, pubblicata di seguito. Quando a Pino chiedevano se, giornalisticamente, pensasse di aver “fatto scuola”, si schermiva e rispondeva: “Più che una scuola, Sassari Sera è stata una specie di casa di tolleranza dove molti hanno fatto le prime esperienze sessuali”. E così si capisce meglio la frase lasciata in sospeso: “Questo è il giornale che gestisce le omissioni o le censure dei quotidiani sardi, è il giornale delle lingue tagliate. Se dovessi farti l'elenco dei giornalisti che hanno lavorato per me in incognito…”. Lingue tagliate che su Sassari Sera hanno fatto palestra. Insomma, casa di tolleranza o giornale di liberazione? Per quanto mi riguarda, voto per la seconda che ho detto. Ricordo un episodio. Quando collaboravo con La Nuova, il responsabile delle pagine di Cultura era un robusto e sanguigno romanazzo col cognome da conquistador, autore con Veltroni di una chicca per Rizzoli intitolata "La buona politica" (ma trattandosi di Veltroni si legge all'inverso, "la politica buona": insomma Veltroni era il finto comunista che diceva al Corriere di stimare Reagan e Sarkozy, e che si diceva in sintonia con i giuslavoristi che volevano rivedere le tutele troppo rigide dei "lavoratori più garantiti"), passato indenne dai giornali del Pci alla catena Caracciolo. Forse mi guardava anche con un po’ di simpatia, tanto che si permetteva di chiamarmi affettuosamente santamariagoretti, dopo la pubblicazione di un mio pezzo moderatamente dissacratorio sul patrono della mia città, “Simplicio, santo e paziente”. Ma la simpatia finì di colpo, nel momento in cui proposi un’intervista a un importante personaggio còrso, il professor Ghjuan Batista Stromboni, uno dei fondatori della Federazioni Culturali Scola Còrsa, nata nel 1972, a cui si doveva in parte il risveglio nei còrsi di una coscienza etnica per la conservazione della lingua e per una maggiore autonomia politica e culturale. Gente tosta, i còrsi (e di poche parole: "a Francia fora", e giù bombe). Proprio Stromboni e la Scola Còrsa avevano contribuito alla nascita nell’isola di una vera Università degli Studi (l’università “Pasqual Paoli” era stata chiusa dalla Francia dopo il 1769). Era un avvenimento importante, storico per i nostri cugini còrsi, e io avevo fatto quest’intervista a Stromboni. Che, certo, non era un tipetto tenero. Tanto che avevo cominciato a parlargli in francese e lui mi aveva zittito con la tipica "praputanza" corsa: “Ùn parlate in francesu. Parlate in sardu, gallurese, italianu, ma ùn parlate in francesu!”. Così gli avevo fatto le domande in italiano-gallurese e lui aveva risposto in lingua còrsa, non so dire se in còrso cismuntanu o suttanacciu, ma, insomma, ci siamo capiti benissimo nelle nostre libere "discursate" culturali. Mi ero divertito con un’intervista interessante, che avevo proposto, accompagnata dalle fotografie scattate dal mio amico Rino, al responsabile della Cultura, che l’aveva letta prima con interesse, poi con un certo disappunto, e alla fine con disprezzo l’aveva rifiutata. “Perché?”, gli chiesi. Non sapeva che dire. Ma era molto serio, si dava arie da intellettuale. Abbozzò: “Perché manca... perché non c’è... il contraddittorio...”. E perché mai, dico io, non devo lasciare parlare un popolo che vuole farsi i cazzi suoi, insomma la propria università? E poi, secondo il principio "audi alteram partem", che faccio, invito il presidente francese? Ma non c’era verso. A questi residui piccisti l’argomento autonomia non suonava per niente bene. “Non importa”, gli dico con tono di sfida, “tanto la pubblico lo stesso”. “Dove?” fa lui con tono sospettoso. E lì gli viene incontro il responsabile delle pagine di Spettacoli, che a bassa, bassissima voce, insomma a momenti strisciava per terra, pronuncia il nome della vergogna: “Su Sassari Sera... lui lavora per... Sassari Sera”. Il romanazzo ancora non lo sapeva. E lì finì la mia collaborazione con il quotidiano collocato alla estrema periferia della catena Caracciolo-L'Espresso. Nessun giornale sardo aveva pubblicato la notizia dell’Università in Corsica. Pino pubblicò immediatamente il pezzo, e due settimane dopo, quando ci incontrammo, mi disse che i còrsi erano molto contenti. Bene, vuol dire che daremo il numero di telefono del romanazzo ai nostri cugini. Così, tanto per fare “contraddittorio”. 

La biancheria semplice smonta gli uomini. Mancava il “contraddittorio”, diceva il caporedattore romano a proposito dell’intervista viziata, a suo parere, dalla mia indulgenza, chiamiamola pure simpatia, per gli autonomisti corsi e dal pericolo di mischiare fatti e opinioni. Però, ripensando al prete preside del liceo scientifico ritratto da Sassari Sera “con la camicia nera sino ai piedi”, di cui ho parlato all'inizio, credo che sia stato uno di quei primi casi che mi hanno fatto riflettere sulla debolezza della massima giornalistica di derivazione anglosassone “i fatti separati dalle opinioni” (che negli anni Settanta diventò lo slogan di un noto magazine italiano). Il problema è che quella massima era bella, ma illusoria, perché scegliere di dare una notizia invece di un’altra è già opinione, figuriamoci il resto. Me ne sono reso conto dopo i primi anni di collaborazione con il giornale di Pino. Quando scrivi, tanto vale schierarsi; però, parafrasando Brecht, cerchi di farlo dalla parte giusta, dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti sono occupati. Veramente Brecht diceva, o meglio faceva dire al suo personaggio, una puttana, anche che “la biancheria semplice smonta gli uomini”. E quando chiedevano se Sassari Sera avesse fatto scuola, Pino si schermiva e rispondeva: “Più che una scuola, Sassari Sera è stata una specie di casa di tolleranza dove molti giornalisti hanno fatto le prime esperienze sessuali”. Su Sassari Sera invece ci si esercitava sulla lingerie e sull’indumento complicato, tipo immaginare la veste talare di un prete come una camicia nera che arriva alle caviglie. Sì, vabbè, il cattivissimo prete. Mi aveva colpito quella descrizione micidiale, che però, in fondo, metteva in crisi le mie opinioni: il pretaccio, di cui tutti avevano una paura tremenda, che tutti chiamavano rispettosamente “dott” e non “don”, era stato il mio professore di italiano in terza media (e anche di latino: in terza media la scelta di quella materia era facoltativa). Un robusto latinista, con una cultura stratosferica. Arrivava in classe, con gli occhiali affumicati stile generale golpista dell’America Latina, tutti zitti e mosca, beveva il primo caffè con la saccarina, accendeva la prima sigaretta, appena seduto dietro la cattedra sbottonava un po’ della veste talare che gli premeva sullo stomaco dilatato, e poi sganciava il collare con fastidio, come si canta nelle vecchie battorinas:
“Sos preideros non giughen’ collarinu / Ca lis at fattu in su coddhu unu callu”.
Mio cognato, che era stato bocciato dal pretaccio all’Avviamento, lo aveva inseguito e centrato con la bicicletta e forse l’avrebbe anche ucciso, se non fosse stato, in fondo, un bravo ragazzo. Io, invece, avevo altri ricordi. Con i 9 che assegnava ai miei temi (il 10 era irraggiungibile, forse soltanto in un'altra vita), e che una volta mi costrinse a leggere alla classe, dalla cattedra, con mio grande imbarazzo, mi aveva liberato dalla gabbia della risicata sufficienza che mi assegnava regolarmente il precedente professore, un tale che ritrovai molti anni più tardi nella redazione olbiese della Nuova Sardegna, dove faceva le cronache di calcio domenicali per le squadre di serie D, quelle della Lega nazionale dilettanti. E per quella liberazione che mi aveva messo le ali, dandomi il coraggio di non fare di un tema un verbale di polizia, ma una composizione libera, e per il bellissimo giudizio finale che mi accompagnò nell’iscrizione al liceo-ginnasio, gli sarò sempre grato. Se uno ha della vita un’idea fortemente valoriale, che cosa deve scegliere e fare, tra il preside presunto fascista (forse non era vero, o forse era vero per i miei compagnetti dello scientifico che strillavano al fascio e poi hanno fatto carriera con i socialisti del centro-sinistra "organico") e il professore che scopre la disposizione di un alunno valorizzandola? Ride per la cattiveria di Sassari Sera, ma poi dovrebbe sforzarsi di ritornare nel mondo reale.




Il gigante gentile. A vent’anni avevo un grosso handicap: non ero mai stato in Corsica. Esagero se parlo di handicap? Insomma, che volete, io lo consideravo uno svantaggio, un vero problema: me lo trascinavo dall’infanzia, per colpa di mio padre. Mi spiego. Mio padre, sugheraio, aveva un socio a Porto-Vecchio, andava spesso in Corsica, e le (poche, diciamo che su certe cose non si sbottonava) storie che raccontava mi affascinavano. Sapevo anche che era stato il bersaglio di un agguato a colpi di pallettoni, mentre percorreva in auto con il suo socio una delle tipiche strade tortuose: scampato per miracolo. Babbo, il suo socio, la “praputanza” corsa, la magnifica natura, il carattere selvatico, tutto mi affascinava dell’isola. Perciò, ogni volta che babbo partiva, gli chiedevo di portarmi con sé, ma senza successo. Ora capisco perché (questioni di prudenza: non so se avete letto i romanzi di Jean-Claude Izzo, ma i corsi sono sempre i più spietati), ma quella privazione di avventura - per un bambino svezzato con le pagine di Dumas, Kipling e altri capitani coraggiosi - rimase a lungo nel mio cassetto dei desideri.
Mi era capitato di parlare di queste cose con Pino, così, tanto per sorridere. Io avevo già sepolto l’argomento, sinché, con mia grande sorpresa, Pino mi disse, tutto serio: un giorno andiamo insieme in Corsica. Sul momento non dissi niente, anche se pensai: sì, me li immagino, il vecchio e il bambino... Ma, ripensandoci adesso, provo una certa commozione pensando a come Pino, che a volte mostrava un gigantesco carattere legnoso, si offrisse al prossimo in un modo così gentile.
Pino si definiva un “viaggiatore diligente”. Tra gli altri, aveva due amori, che condivido: il Portogallo e il sud della Francia. Non so dire se la Corsica fosse un altro suo grande amore, ma sicuramente l’isola, per lui maddalenino cresciuto nei rudi paesaggi di Squarciò, era un approdo naturale, conosciuto, soprattutto nel punto intermedio tra il sud e il nord dell’isola, tra Bocognano, Bastelica, Vizzavona, dove andava d’estate; mentre durante l’inverno probabilmente preferiva zone come Ajaccio, quando è tempo di oursinades, di imbrucciate, di tartes au brocciu. Quando gli chiedevo se era meglio il mare o l’interno, lui nato nello splendore dell'arcipelago, non si sbilanciava, diceva che erano due paesaggi diversi dell’anima, ma sapevo che forse era attirato dall’interno, la montagna, perché gli era congeniale, si adattava al suo senso del mistero, come in un paesaggio fotografato in un suo libro: “Dal Monte Oro occhieggia una luna velata di albume. C’è tanto umido la notte, qui. S’alza la nebbia e ovatta il dialogo di un lupo maremmano col buio”.
La montagna corsa: che abbia un fascino particolare, l’ho capito quando ho portato mio figlio, ancora piccolo, per la prima volta in Corsica, non al mare, ma lì dove aleggia ancora lo spirito di Pasquale Paoli, tra i castagni secolari. L’ho fatto seguendo la pista contagiosa di Pino. E non ho sbagliato, se è vero che quest’altro piccolo Vergine alle prese con i misteri della vita ha deciso di fare il primo bagno fuori dalla vasca, cioè il suo primo viaggio senza il babbo invadente, ma con la più accondiscendente fidanzatina, proprio in Corsica. E così la tradizione continua.
Della Corsica, Pino parla nei suoi libri. Ed era naturale che un giornalista sardo attento all’evoluzione della cronaca non potesse fare a meno di dedicare le sue particolari attenzioni a una regione così vicina e misteriosa (non soltanto per i suoi dubbi traffici con Marsiglia e Tolone), per esempio nel periodo in cui si verificava il pericoloso incrocio tra banditismo sardo e separatismo corso. Pino, nei suoi libri, la trasforma in un’improbabile Cuba mediterranea pre-Castro, creando un’ambientazione cinematografica dove intreccia il pessimismo di Carné con la Pantera rosa, cioè con gli effetti comici che gli sono propri. Qui riporto un brano tratto da Plot.

POSTA DA SIDI BOU SAID


[...] Si sorseggiava Mirtha ghiacciata e scambiavo Pastis col gruppo ristretto di signori cazzutissimi: vestivano grisaglie chiare e qualcuno aveva il panama listato a lutto come doveva essere quello del nonno di Jean Paul Belmondo. Arrivavano a Vizzavona nello stesso torno d’estate, sbarcando a Bastia dopo aver insilato le loro possenti macchine nel traghetto da Tolone. Di quest’ultimo gruppo che veniva da pochi anni distribuendo mance in cambio di inchini e rispettabilità, sapevo quel che mi diceva il padrone del vecchissimo ma dignitoso rifugio ai piedi di Monte Oro. Si approfittava a scambiare impressioni col patron, con tono riservato e nella controra, mentre questi aspiranti alla Legion d’Onore si scioglievano vestitissimi in sfibranti tornei di petanque, perdendo ciccia e dignità come qualsiasi monsieur Ducon che non abbia altro scopo nella vita oltre il gioco delle bocce e le confidenze a labbra strette.
Era, quella, una molto prevedibile brigata senza Jean Gabin, che parlava in argot e che ritrovava il look formato esportazione durante la fastosa ora di cena, quando le consorti befane dei grandi ufficiali in congedo ammettevano al baciamano i clienti più giovani o i vecchioni divenuti galanti del Terzo Stato.
Da qualche anno c’era un feeling da gente di mondo tra me e questi scostanti borghesi tra la sessantina e la settantina. Ascoltavano nel tavolo accanto le mie affabulazioni con voce scomposta indirizzate ai grandi ufficiali d’Oltremare, con arguzia e finto disinteresse.
Secondo il nostro anfitrione di Vizzanova, del gruppo faceva parte un alto funzionario di polizia, monsieur Kosma, che aveva voluto passare la carriera a Vichy per riferire al maresciallo Petain i prodigi procurati al fegato e generalmente alle viscere da quelle sorgenti naturalmente gasate e dichiarate di pubblica utilità. Un altro faceva il gallerista ad Avignon. Un terzo, Vitigny, aiutava Gaston Deferre, l’inossidabile sindaco socialista di Marsiglia, a far marciare le cose nel più grande porto commerciale della Francia. Un quarto, forse si chiamava Carreras, era originario della Camargue dove aveva reinvestito i guadagni realizzati dalle paste molli di formaggio nella più grande compagnia marittima che controllava i traghetti per il Centro Italia, la Tunisia e i principali porti nazionali e soprattutto quelli della Corsica; con bureaux d’affaires a Brest e interessi turistici a Bandol, sull’autostrada che congiunge Nizza a Marsiglia. Insomma: era una mezza dozzina di signori impettiti e severi che amavano pisciare all’aperto nella foresta prima di dirsi buonanotte [...].

A lezione di giornalismo col grembiulino. Quando cominciai a collaborare con Sassari Sera, non sapevo molto né di Pino né del suo giornale. Ero giovane e mi confortava il fatto che sul giornale scrivessero giornalisti, in incognito o meno, provenienti da tutto l’arco costituzionale e non, insomma dai socialisti ai comunisti, ai democristiani, ai radicali, agli ex di Lotta Continua. C’era di tutto, e la molteplicità di voci era una garanzia di libertà. Però, tra i tanti argomenti, affiorava ogni tanto la massoneria. Chiesi qualche chiarimento a Pino, che liquidò la faccenda: “Ti spiegherò con calma”, mi disse. “Sono massone, però sono in sonno”. Strano, pensai, come fa uno così sveglio ad essere in sonno? Insomma, ero un mezzo deficiente. Però sospettoso. E così mi rivolsi alla mia fidanzata di allora, una fotoreporter tedesca che aveva girato il mondo, grande professionista di scuola Life Paris Match, più grande di me e generalmente più informata, e le domandai se sapesse qualcosa di massoneria. Lei non ne sapeva granché, poi si ricordò che quello che chiamava il suo “primo padre” (la madre era divorziata) era massone. Mi disse: “Ma non fanno niente di particolare. Si riuniscono. Fanno delle cose. Si occupano di beneficenza”. Insomma, dei vecchietti simpatici, tutti dediti al prossimo. Dovetti aspettare l’esplosione dello scandalo della loggia P2 per un supplemento di informazione. Ma non affrontai più l’argomento con Pino, forse perché pensavo che la sua era una scelta comunque coerente, da laico impenitente, forse per non incorrere in altre drammatiche delusioni riguardo alla mia generazione, come quando mi rivelò che diversi ex sessantottini avevano chiesto di entrare in massoneria. In fondo, a me bastava la garanzia di un giornale anticlericale e antifascista: what else?

Dire, fare, mangiare, dormire. Pino Careddu era una persona generosa? Non lo so. Di sicuro, so che aveva un suo codice. Un giorno un nostro amico comune, quello che chiamava “l’amico americano”, gli disse che ero ritornato in Sardegna, per un breve periodo, perché una persona a cui ero particolarmente legato, che poi era la mia sorella maggiore, si era fatta operare a Sassari per un cancro. Aveva saputo, soltanto dopo il mio ritorno a Milano, del mio viaggio in Sardegna, dei miei duecento chilometri di andata e ritorno tra la mia cittadina e Sassari, e mi aveva telefonato trattandomi con molta durezza. Mi avrebbe messo a disposizione la sua casa sassarese, e io non l’avevo informato. Se la prese così tanto che non ci parlammo per un po'. Per me era un problema di discrezione, insomma non mi sarebbe mai passato per la testa di chiedergli le chiavi di casa (in cui, comunque, mi era già capitato di mangiare e dormire, quando ero un po' più giovane e squattrinato, e, insomma, le case di Pino le avevo girate tutte: Sassari, Baja Sardinia, Alghero, con e senza fidanzate), per lui invece era un problema di amicizia. Ma come, mi dicevo, non era lui che disprezzava la nostra “cultura degli stazzi”? Indecifrabile Pino.

Tutti e nessuno. Pino era un potente affabulatore capace di forti rappresentazioni, raffinato e colto, divertente, linguacciuto e velenoso, e trasferiva questa sua caratteristica nel giornale, dove distribuiva le sue mille sfaccettature attraverso altrettanti pseudonimi. Al vizio dello pseudonimo mi sono adeguato anch’io, per necessità (sul giornale pubblicavo anche delle pagine di satira disegnata) e per divertimento. Uno era Banduleri, il nomignolo scherzoso ma anche poco edificante che ogni tanto mi affibbiava mio padre a causa dei miei frequenti vagabondaggi “creativi” giovanili, e che Pino continuò a usare in seguito per sé e per altri collaboratori, quando smisi di pubblicare nel suo giornale. Insomma, io e lui ci riconoscevamo nella figura del girovago? Poco male. In fondo, ma molto in fondo, la tradizione del cantastorie vagabondo, on the road, da Hank Williams a Woody Guthrie, aveva progenitori eccellenti. E adesso mi chiedo: era autoironia, o che altro? Era un modo di porsi diverso da quello di certi giornalisti con l’ermellino. Un modo sano per prendersi in giro e smitizzare la professione intesa come casta. Come il cantautore che diceva "sono solo canzonette"? Non propriamente. Diciamo, un modo per distinguersi da quelli che se la cantano e se la menano. Perché come scriveva Hikmet: I muratori cantano,/ cantando sembra più facile./ Ma tirar su un edificio/ non è cantare una canzone,/ è una faccenda/ molto più seria. Una precisazione sulla foto della campagna Pioneer (che ho ritrovato ritagliata e incorniciata in un ristorante di Sassari): il simpatico personaggio con cui scherza Pino è il suo amico Peppe Mura proprietario dello storico ristorante Su Marineri di Porto Cervo, abile cuoco (il maestro di tutti, diceva Pino, forse eccedendo un pochino in generosità). Pino, per l'occasione, indossa, con una buona dose di autoironia, un capo che gli piaceva sfoggiare in quel periodo (dopo aver fatto un bel servizio da Rostock), un cappotto in pelle nera simile a quello che indossavano le spie della Stasi della DDR. È che Pino aveva, oltre a un guardaroba elegante, questa simpatica tendenza al dandismo, diciamo alla francese, stile "Épater la bourgeoisie". 

Take the A Train. Pino scriveva come un treno. Ora non sto a raccontare se prendesse sempre il treno giusto, però andava come un treno. Aveva cominciato a scrivere da ragazzino, se non ricordo male a 16 anni, vice corrispondente dall'isola della Maddalena per La Nuova Sardegna, e da allora non si era più fermato, producendo una quantità incommensurabile di pagine scritte (senza contare, poi, l’attività radiofonica e televisiva). Questa logorrea ordinata e coerente (insomma, non era un disturbo mentale: era il suo lavoro svolto con una passione straordinaria), la mancanza di tempo (malgrado dormisse poco), l’obbligo di chiudere comunque il giornale nei tempi previsti, eccetera, lo costringevano in alcuni casi a non limare, a non perdersi nelle finezze del letterato. Certo, era talmente bravo che poteva permettersi di chiudere un testo dopo una rilettura veloce. E comunque sapeva benissimo che la carta che produceva non sarebbe finita nella Treccani: il giornale è un prodotto di consumo immediato, e il suo destino finisce nel momento in cui l’edicola abbassa le serrande e l’edicolante se ne torna a casa (con le dovute eccezioni: per esempio, quando il suo giornale veniva fotocopiato e agitato come un manganello dalle opposte fazioni; ma non vorrei essere frainteso, perché quel giornale considerato “scandalistico” non era la vendetta sbattuta sul tavolo del funzionario o del boss di turno come le torte in faccia: le annate di Sassari Sera sono state consultate e saccheggiate anche da chi scriveva libri o preparava la tesi di laurea). Ma, con il suo primo libro della serie gialla ( che definiva "gialli involontari"), si mise il problema del risultato definitivo. E, nell’occasione, mi chiese un aiuto. Che rifiutai. E questo è il mio cruccio: in quel libro, in quei libri, avrei voluto rivedere i collegamenti, addolcire certi passaggi, togliere le nebbie e i messaggi cifrati, rendere tutto immediatamente comprensibile anche a chi è estraneo alle cose sarde. Ma c’era anche un problema di stile, a cui Pino non era insensibile. Tutt’altro. Ma il tempo era quello che era. Per lui, che era un giornalista di razza, contava la notizia. Per me, che facevo ormai un altro mestiere e avevo altre passioni, la forma era importante quanto la sostanza. Perciò, se Pino mi chiedeva di aiutarlo a rivedere le bozze, è perché, appunto, sapeva di rivolgersi a un maniaco della forma (ma erano altri tempi). Per esempio, non avrei mai sopportato di leggere "Interpool", oppure “isola” in francese senza l’accento circonflesso. Lui poteva farne a meno; lui che poteva fare benissimo il karaoke ripetendo a memoria Brel o Brassens, se ne fregava altamente dell’accento circonflesso. E poi, a pensarci bene, come dargli torto: l’accento circonflesso non è neanche un segno di liberté. Anzi, diciamoci la verità, questo tettuccio accomodante, buono per la borghesia casa e famiglia, è un segno così contratto e ripiegato su se stesso, così moscio. Un segno diacritico di abbandono fisico e morale. Perciò sopprimiamolo, perbacco.
Quando Pino finì di scrivere Plot, io mi trovavo in Sardegna. Venne avvisato dal solito amico che, evidentemente, non aveva modo di farsi gli affari suoi, e mi telefonò per chiedermi di andare ad Alghero per un full time di rilettura, correzioni e montaggio definitivo. Rifiutai per due motivi: prima di tutto, perché avevo deciso di dedicare quei pochi giorni alla mia famiglia; in secondo luogo, perché non ho mai accettato ordini, e Pino, all’inizio della sua malattia, era diventato un po’ più coriaceo e duro del solito nei rapporti col prossimo. Gli suggerii di inviarmi le bozze a Milano, dove avrei potuto lavorare con calma, ma si oppose all’idea, adducendo motivi di “sicurezza”: non si poteva affidare al servizio postale un documento così delicato (allora il computer non era diffuso, non si scambiavano i files). E lì pensai, sorridendo: ecco Pino alle prese con i soliti fantasmi delle sue trame reali o immaginarie, del complottismo, dei servizi segreti, delle reti di ascolto e controllo e chissà che altro. Il lavoro di Pino, la controinformazione, gli scandali, il giornalismo investigativo e di denuncia, avevano lasciato qualche vezzo e qualche deformazione di troppo, insomma una struttura mentale che mi stava stretta. Anzi, cominciava a starmi indigesta.
Rifiutai di aiutarlo - con ragione, secondo il mio punto di vista - e, come succedeva in questi casi, non ci parlammo per un po’, coltivando con molta cura il solito regime dietetico fatto di privazione di contatti e di astioso silenzio. Dopo qualche tempo, il solito amico tornò a Milano dopo un suo viaggio in Sardegna e mi confidò: “Pino mi ha accompagnato all’aeroporto. Per tutto il tempo, non ha fatto altro che parlare male di te: ha detto delle cose...”. Come ti comporti in questi casi? Prima ti chiedi se nel tuo interlocutore si siano insinuati dei dubbi sulla tua persona, perché le cattiverie non si lavano facilmente, insomma non hanno ancora inventato un bagnoschiuma che faccia di questi miracoli. Perciò sorridi e gli dici: “So bene come è fatto Pino. Ha parlato male di me? Bene. Ma forse tu non puoi neanche immaginare quello che dice di te”.
Insomma, caro Pino, maestro di duelli, di polemica e di cattiverie, adesso che hai preso un treno definitivo, che non porta propriamente da eastern Brooklyn ad Harlem direzione northern Manhattan, ma non si sa dove vada, adesso te lo dico, cattiveria per cattiveria: avevo imparato bene la lezione?


Chill’è pazzo.
Ai tempi del liceo la mia lettura preferita era il Corriere dello Sport di Antonio Ghirelli, il lunedì mattina. Eppure avevo un professore di italiano che mi teneva in discreta considerazione. Nel senso che, quando mi chiamava per l’interrogazione, mi chiedeva: di che cosa vuoi parlare? E io, che avevo un repertorio minimo di alcune paginette imparate a memoria: di Machiavelli, secondo Croce. Lui mi faceva dire due cose, e poi: va bene, vai a posto. Insomma, il fatto è che gli piacevano i miei temi, su cui mi dava dei voti molto - anche troppo - generosi, perciò soprassedeva sulla mia nota fannullaggine. Era indulgente e tra noi si era stabilito un rapporto di fiducia. Abitava con la moglie, anche lei insegnante, a due passi dalla scuola. In quel periodo mi ero appassionato alla poesia, e lui mi aiutava a coltivare questo interesse: ogni tanto andavo a trovarlo, da perfetto maleducato, senza preavviso, per fargli giudicare le cose che scrivevo, per parlare del più e del meno. La cosa buffa era il contrasto: io, ragazzaccio polemico, presidente del Consiglio degli studenti perciò suo antagonista, suonatore ramingo di chitarra, capelli lunghi e jeans consumati; lui, capelli cortissimi, occhiali con montatura dorata, serissimo, molto misurato e perbene. Era uno di quegli intellettuali campani dall’aspetto asciutto, fisico secco alla Eduardo, seri, eppure capaci di improvvisa ironia. Un giorno andai a trovarlo per una delle solite chiacchierate culturali, e, con mia grande sorpresa, lo trovai alle prese con il Corriere della Sera aperto nelle pagine di economia. Mi guardò, intuendo la mia sorpresa, e mi disse, molto seriamente: “G., noi dovremmo cominciare a occuparci di queste cose”. Per “noi”, intendeva chiaramente “noi intellettuali”. Economia? Finanza? Gli risposi liquidando subito la questione, senza approfondire: sì, certo. Pensavo, da ignorantello, che magari aveva appena acceso un mutuo, qualche investimento, una pensione integrativa, altro che economia. Quando andai via, pensai alla commedia di Eduardo Ditegli sempre di sì. Insomma, mi dissi: chill’è pazzo. Ero un ingrato.
Questo episodio mi è venuto in mente pensando a un’altra storia accaduta con Pino. All’inizio degli anni Ottanta Pino e il suo giornale si presero una “pausa di riflessione”. Era uscito un nuovo quotidiano di informazione, un tentativo di creare un contraltare a La Nuova Sardegna di Sassari. Si chiamava L’Isola, nato per iniziativa della famiglia di un costruttore, ma ebbe vita breve: diciotto mesi di attività molto contrastata, poche copie vendute, il primo direttore, Roberto Stefanelli, sostituito dopo appena sette giorni. Pino era stato chiamato da quel giornale e mi aveva chiesto di collaborare. Ne parlammo, chiesi informazioni sul suo ruolo, e mi disse che era responsabile delle pagine di Cultura e di Economia. Lo disse con una delle sue solite smorfie, strizzando gli occhi, facendo la parte di chi la sa lunga. Era quello che pensava: Cultura ed Economia erano il cuore di un giornale, la zona strategica, la cosa che può condizionare e spiegare il mondo. Mi fece l’impressione di chill'è pazzo, del mio vecchio professore di italiano, e dovetti aspettare qualche lettura più adeguata, o la rilettura critica dei testi comprati per gli esami di Economia (mai dati), per capire quanto ero stupido, e che né il vecchio professore campano né Pino avevano torto. Meglio tardi che mai.

 


A colazione dall’Assassino. Quando cominciai a collaborare con Sassari Sera, la redazione si trovava in vicolo Bertolinis, traversa di via Insinuazione (non è uno scherzo, è vero), nel centro storico di Sassari. Io andavo a trovare Pino col treno o con la mia vecchia Dyane 6 targata Nuoro (infatti ero l'unico che, inevitabilmente, veniva fermato nei posti di blocco delle furbissime pattuglie della polizia o dei carabinieri disposte nel tragitto Olbia-Sassari) e comprata di seconda mano da una cara amica; una macchina un po’ sgangherata, che quando prendevi una buca partiva il tergicristalli e non lo fermavi più, però aveva il tettuccio completamente apribile ed era uno spasso, e in più aveva in dotazione la manovella per farla partire quando si scaricava la batteria. “Deliriumtremens” era stata prodotta nel 1968 e ormai dava segni di pericoloso spaesamento: perciò preferivo il treno, anche perché mi piaceva fare a piedi il tratto che portava dalla stazione al giornale, zona storica. Passavo a salutare un amico che faceva l’ottico, e poi salivo le scale strette e buie. Ogni tanto Pino mi portava in una trattoria chiamata l’Assassino, che adesso è un posto un po’ più fighetto, ma allora aveva un’entrata da affascinante “zilleri”, con i vecchi che bevevano direttamente al banco per abbreviare i tempi dalla bottiglia al bicchiere (si trovava in via Ospizio dei Cappuccini: tutto un programma), e poi una piccola sala con pochi tavoli in cui potevi ordinare piatti tipici e casalinghi: pedi d’agnoni, cioè piedini di agnello con aglio e prezzemolo, carne d’asino, trippa, lumache (non la ciogga minudda o i lumaconi, ma le monzette), saraghi e polpi, e soprattutto la cordula con piselli, di cui io e Pino eravamo ghiotti (anche se io preferivo la versione gallurese che è una via di mezzo tra cordula e rivea, con cottura lenta allo spiedo: l’intestino avvolge le interiora, fegato e altro, non soltanto pezzi di stomaco). Io mi sedevo e Pino entrava direttamente in cucina, dove poteva scegliere. Menu sassarese-gallurese (varrà la pena ricordare la comunanza, per esempio che sia il gallurese che il sassarese sono varietà linguistiche romanze di tipo sardo-còrso). Il padrone e Pino si conoscevano e parlavano in dialetto; così, con la supervisione di quel grande cuoco che era Pino, mangiavamo sempre molto bene.
Un giorno ci ritrovammo in tre: io, lui e suo figlio Aldo, che allora era giovane e, come tutti a quell’età, in conflitto con la figura del padre. Io stavo in mezzo - per questioni di età - e cercavo di conciliare. Parlavamo tutti pacatamente, tenendo a bada ognuno il proprio caratteraccio, ma senza costrutto, tanto che, a un certo punto, per deviare la discussione, dissi: accidenti, siamo in tre della Vergine, ecco perché siamo così noiosi. E Pino, chissà perché, mi rinfacciò questa cosa a lungo: “Però io sono noioso”. Inutilmente gli dissi che in realtà, di astrologia, non sapevo niente, e che lui non era per niente noioso. Non ci fu verso. Non c’era modo di ritrattare, con Pino: se è vero che la vita è un film, lui era un regista stile “buona la prima”. Probabilmente perché aveva troppe cose da raccontare, per perdersi con il cazzeggio degli attori.

Eppure il vento soffia ancora. Pino era anche un musicofilo, un ingordo consumatore di musica. Un giorno mi domandò: “Al di là di tutto, non pensi che, alla fine, il migliore interprete di un’epoca sia Pierangelo Bertoli?”. Domanda insidiosa, pensai immediatamente. Insidiosa, perché lui sapeva benissimo che io ero molto refrattario a quella corrente emiliano-romagnola che parte da Guccini, passa per l'orchestra Casadei e finisce con Vasco Rossi; e che avevo gusti movimentisti e al limite (sbagliando) preferivo un Finardi a un Bertoli. E poi, mica per altro, ma in giro si diceva che Pino avesse interrotto un’amicizia ultra decennale per una violenta discussione su Frank Zappa. E così presi tempo, tipo una strategica pausa craxiana di trenta secondi, prima di rispondergli con un codardo: “Non so”.

Dare, avere, e ogni tanto prenderne. Mi ricordo un’intervista a Gianni Letta, celebrato tessitore e gran cerimoniere di Berlusconi politico. L'intervistatore gli chiedeva notizie circa l’origine delle sue doti “diplomatiche”. E Letta citò la sua esperienza in un giornale locale. Quando lavori in un giornale locale, diceva più o meno Letta, e scrivi di una persona, sai che poi ti capiterà di incontrare quella persona per strada, con cui alla fine dovrai fare i conti. Da qui l’origine della sua diplomazia.
Anche Pino Careddu scriveva in un giornale locale, ma non era un ciambellano ed era tutt'altro che diplomatico con gli uomini de panza. Polemico nelle sue battaglie vinte o perse, disposto ad attaccare anche gli amici, non usava particolari riguardi nei confronti del potere. Gibi Puggioni, giornalista che si è fatto le ossa proprio nel giornale di Pino, ha ricordato un episodio che la dice lunga sull’irriverenza di Pino. “Ci fu un incontro casuale a Sassari, nel corso di una cerimonia, fra lui e l’allora arcivescovo di Oristano. Pino lo aveva attaccato per qualcosa che riguardava dei terreni della Chiesa. Quando se lo trovò davanti, gli porse la mano e con un sorriso gli disse: - Buongiorno Eccellenza, ancora a piede libero?”. Pino era così, ricorda Gibi: per una battuta, si sarebbe giocato chissà che cosa.
Ma non era solo per il gusto dello sberleffo o delle battute che Pino Careddu aveva scelto per sé il ruolo di giornalista scomodo. Lo testimoniano i processi, le battaglie, i suoi corpo a corpo col potere locale. A differenza di certe celebrate e belle statuine del giornalismo nazionale, Pino ne dava, e a volte ne prendeva, nel vero senso della parola: un giorno mi raccontò di quando lo aspettarono sotto casa per dargliene di santa ragione. Ma ne parlava con non chalance, senza darne peso. Come se fosse tutto normale, come se tutto facesse parte del gioco della vita.
Comunque, siccome Pino mi suggestionava con queste storie alla Kazan, da allora, e per qualche tempo, quando rientravo tardi a casa aprivo il portone con circospezione. Del resto, che non fossi il più simpatico sulla piazza, lo intuivo da tempo; diciamo che lo metti anche in conto, con la consapevolezza che la più amata dagli italiani è soltanto la cucina Scavolini. Però la certezza arrivò molti anni dopo con il mio trasferimento a Milano per fare il pubblicitario, quando con la mia compagna fresca di matrimonio andai a una festa in occasione di una vacanza nella mia deliziosa poisonville (così definivo la mia cittadina, con un’espressione presa in prestito dal principe dell’hard-boiled Dashiell Hammett), e un edicolante disse, tutto rubizzo e ridanciano: “Hai fatto bene ad andare via, se no qui ti avrebbero ammazzato”. Passai parecchio tempo a cercare di convincere mia moglie che era la battuta idiota di un ubriaco.

Ma, a proposito di corpo-a-corpo col potere: qui ho riprodotto la copertina di uno dei libri di Pino Careddu, Assassiga. Sottotitolo: "Tracce di vita anteriore dell'uomo che punta a controllare il centro destra in Italia". Libro geniale, nel senso che qui il genio di Pino si sbizzarrisce tra arsenico e vecchi livori con una scrittura feroce. Libro emblematico, su uno dei grandi fantasmi di Pino: i cosiddetti Giovani turchi democristiani, l'ex presidente Cossiga. Scriveva Pino nella prefazione: "Questo libro - assemblaggio di personaggi e avvenimenti - è stato ultimato quattro mesi prima delle dimissioni anticipate di Francesco Cossiga. Doveva essere un instant-book. Invece l'autore lo ha messo da parte convinto che il penultimo presidente della Repubblica non facesse più notizia. Sbagliò, evidentemente: il grande fantasma della Prima ha ripreso ad attraversare l'Italia della Seconda Repubblica. Cossiga non ha mai cessato di essere un notabile di inquietante attualità".

Malvagìa e altri grand cru dell'esistenza. Come dicevo, Pino era un grande scrittore, spesso incline alla satira e alla caricatura. Quando pensavo come collocarlo nell’ambiente molle dei giornalisti e degli intellettuali sardi, immaginavo un prato pieno di puffi-intellettuali di regime, di buffi cuccarumeddi, dove spiccava una cosa completamente diversa, una bellissima amanita. Bella da vedere, velenosa da toccare. Questo era Pino: potevi distinguerlo. E quella distinzione, insomma la sua specialità che più mi piaceva, era data da un mix micidiale, tra le attenzioni minute di Hogarth e la violenza della Street Art. Perché era colto, raffinato, e popolare. Mi faceva pensare alle “carriere” di Hogarth, con quel suo gusto del ritratto minuzioso e del fantaracconto in progress, che poi dilatava e sbavava con un eccesso di colore, con un accenno di volgarità popolare, con la battuta feroce o con i graffi di un giovane writer di strada.
Sono andato a rivedere alcuni suoi libri, in particolare Malvagìa, il secondo della serie di pseudo gialli caratterizzati dalle belle copertine disegnate da un grande pubblicitario e magnifico art director, suo amico di lunghissima data, Gavino Sanna. L’ho aperto proprio lì dove mi aveva scritto una dedica, con la solita penna stilografica, con quella sua scrittura minuta e strana, ordinata, in parte rotonda, in parte aguzza: A Gaspare, piccolo-grande scienziato delle parole “in libertà vigilata”. Era il mese di maggio del ‘91, e mi aveva inviato questo libro, con quel suo accenno polemico al mio "tradimento", alla mia attività di pubblicitario e alle parole incatenate (però, caro Pino, quale "libertà vigilata"? Un editore non ti rende più libero né più emancipato né più intonso di un produttore di mozzarella; insomma, sicuramente avrai letto La Casta dei giornali di Beppe Lopez...). Poi ci incontrammo, e ne parlammo. Che cosa ne pensi, mi disse. Che cosa posso pensare? Che è un tuo libro. E via a sardonicchiare. Nel senso che io mi adeguavo a Pino, al suo linguaggio cifrato, fatto di finte, di rimandi, di citazioni, soprattutto di sottintesi. Pino la pensava come Goethe, che nelle discussioni bisogna essere preventivamente d’accordo almeno sul piano culturale, altrimenti le discussioni sono inutili. Tra me e Pino c'erano vent'anni di differenza, perciò tra noi non c’erano vere discussioni, ma sottintesi. Una volta mia moglie - che allora non era ancora mia moglie - aveva assistito a queste “discussioni” e mi aveva detto: “Non ho capito niente”. Neanche io a volte capisco quello che mi dice Pino, le avevo risposto. E ti dirò di più: non capisco neanche quello che gli dico io.
Lo so, sembra una canzone alla Tiziano Ferro (il cielo ce ne scampi), ma è così. Non ci capivamo, però ci intendevamo. Quando io e Pino andammo a cercare insieme gli episodi più caratteristici di quel libro, ci trovammo subito d’accordo. Per esempio sul "grazioso" quadretto in cui Pino, magnifico caricaturista, descrive quel mondo di notabili e boss periferici che lui frequentava e conosceva così bene, che metteva a nudo stendendoli nella sala operatoria del suo ring immaginario, sezionandoli e poi esponendone le parti poco nobili nel suo giornale, nei suoi libri, mostrandone in diretta la decomposizione, la dissoluzione necrotica. È il capitolo intitolato Il senatore Jaco, dove la scrittura di Pino diventa meno moderna, meno jazzata, anzi si fa calma, dilatata, lenta, meditata, come un'ouverture comica in attesa di altri sfaceli, accattivante e per questo insidiosa come nella Gioconda di Ponchielli. Riporto la prima parte: una splendida, impietosa caricatura di un potentissimo boss democristiano. Il senatore Jaco. Se ci penso... Questi sono gli uomini che hanno occupato e devastato, con i loro clan, il loro potere e i loro affari, la mia isola per decenni. E ho paura che i loro figliocci e nipotini non saranno migliori. Anche perché mancheranno gli schiaffi "pedagogici" di Pino Careddu, giornalista di controinformazione e di costume, viaggiatore diligente, enogastronomo in proprio.

IL SENATORE JACO

Il senatore Jaco trovò sulla scrivania l’appunto lasciato dal suo segretario, il cavalier Gribaldi. Il segretario lo aveva sottolineato in maniera speciale, forse per evitare che finisse subito nel cestino. Funzionario delle Poste in pensione, gli era toccato in sorte un datore di lavoro che odiava lettere, biglietti e telegrammi. Il giorno in cui aveva deciso di curare gli affari correnti di questo politico che aveva avversato per tanti anni, il senatore aveva guardato sprezzantemente la corrispondenza che si era accumulata sul tavolo, dopo giorni di vagabondaggio tra la bouvette di Palazzo Madama, la casa in costruzione in Costa Smeralda (grazioso omaggio dell’on. Tassalabria) e gli ovili del nord dell’Isola. Rivolgendogli poche delle sue rarissime parole, il senatore gli aveva chiesto: “L’ha letta?”
“Non mi sarei mai permesso,” aveva risposto sommessamente il segretario.
“Ha fatto bene, la distrugga.”
Il cavaliere, che conosceva per sentito dire la sua stranezza leggendaria, cercava i suoi occhi a fessura da guerriero mongolo e non trovava altro conforto che in un gesto molle e sprezzante della mano.
“È gente che ha tempo da perdere. Nessuno ha da dirmi cose che non sappia. Decido io cos’è importante.”
Il cavaliere aveva annotato diligentemente le telefonate, non molte. E, forse perché le altre si erano già perse, riassorbite dalla rete telefonica, avevano trovato un’accoglienza meno gelida da parte del senatore. Il senatore se le fece elencare, e impartì le disposizioni.
“Di solito, sono io che chiamo, quando non ne posso fare a meno, ma per dire che mi chiamino. Mi riferisca soltanto queste telefonate, nel seguente ordine: della segreteria della presidenza della Repubblica, di mia moglie, di mio fratello Angelino.”
“E le altre, senatore?”
“Le cataloghi ogni fine settimana. Potrebbe tornarmi comodo verificarle.” Aveva detto proprio così: “Le cataloghi.”
“E se telefonano i suoi figli?”
“Loro non hanno bisogno di telefonarmi. Comunque, lasci scritto in evidenza il suo recapito telefonico in tutti i posti in cui gli è possibile, in modo che mi entri in testa. Ha capito, cavalier Gribaldi?”
E il cavaliere obbedì. Aveva capito che il posto più frequentato in quell’ufficio era l’ampia e comoda toilette in cui il senatore si faceva inghiottire insieme a uno smisurato fascio di giornali; perciò, per lasciare il suo recapito telefonico, cominciò da quel vano, sino ad arrivare alla poltrona-letto sempre scosciata, con un plaid scozzese incredibilmente stazzonato, con un calendario abbandonato sul poggiatesta, pasticciato e pieno di segni indecifrabili, con i mesi già trascorsi sbarrati da una implacabile X. Quel disordine metteva paura.
Sicuro che il senatore Jaco ritenesse quel calendario lo stampato di più frequente consultazione, il cavaliere trascrisse il suo numero telefonico in ognuna delle dodici pagine. Non sfuggì però al cavaliere che i ghirigori di quell’illustre scrittore erano tutti raggrumati intorno ai numeri che indicavano i giorni. Sembrava che ogni numero di ciascun giorno del mese facesse da battistrada a una processione di crocette, di segni più, per e meno, e di lettere di un alfabeto sconosciuto che non era greco - che il cavalier Gribaldi era in grado di riconoscere essendo stato allevato da uno zio canonico, tantomeno latino, forse cirillico, insomma indecifrabile. Che fosse il magazzino dei pensieri di quel singolare uomo politico? Forse il senatore si serviva di quel calendario per smontare i suoi segreti temendo che qualcuno osasse rubarglieli nel sonno?
Ma che sonno era, quello del senatore, nei prolungati giorni di cuccia passati in quella stanza sempre buia e sudicia? Le soste nel bagno erano lunghe e sofferte. Il cavaliere sentiva il senatore tossire, raschiare a lungo e ritmicamente la gola con una serie di doppi boati: uno, come imitato con la bocca; e, subito dopo, quello autentico di un potente sciacquone potenziato dal petulante impianto di un’autoclave. Dal triangolo di luce che proveniva dalla stanza con la porta semiaccostata in cui lavorava l’ex ispettore postale cavalier Gribaldi, si vedeva la figura furtiva dell’uomo politico che faceva una spola talvolta incessante tra poltrona-letto e bagno, tra bagno e poltrona-letto, che forse non si sarebbe neppure notata se quell’uomo massiccio non fosse stato claudicante.
Dopo ore di permanenza del senatore nella toilette, immerso nel suo perenne colloquio con l’impianto idrico, e spesso dopo giorni, il cavaliere trovava i fasci di giornali che lui stesso ritirava nell’edicola vicina. Giornali che apparivano come dimenticati, come se non servissero a niente, neanche buoni da leggere o almeno da sfogliarsi, come se meritassero soltanto ribrezzo, come se fossero scritti con il linguaggio di un altro pianeta, come se non fossero stati mai stampati. E a volte, quando la toilette cominciava ad assomigliare a un magazzino di giornali resi, proprio allora il senatore appariva come un fantasma, con gli occhi mongoli sempre più fessurati, e chiedeva: “Cosa dicono i giornali?” Poi spariva, senza neanche attendere una risposta.
Ma quali giornali, e di quale giorno? Forse il senatore aveva incaricato qualcuno di leggerli per conto suo: un servizio esterno all’ufficio?
L’altra cosa che sembrava incredibile, al cavaliere, era l’immensa scorta di disinfettanti contenuti in bottiglie di plastica, dove si intuiva un liquido chiaro come l’acqua, che non sembrava neppure alcool, oppure lo era e aveva perso il colore originale. Il cavaliere, con molta discrezione, non aveva mai annusato quel liquido; evitando, quando non era indispensabile, di aprire gli sportelli del grande mobile a specchiera che occupava la parete più larga di quel vano molto riservato. Talvolta si permetteva di riportare nel bagno quella plastica vuota che l’illustre padrone di casa abbandonava ai piedi della poltrona-letto. Pensava, il cavaliere, che forse aveva qualche ferita segreta, molto privata, il senatore Jaco. In effetti, c’erano dei periodi in cui egli si ricoverava, spesso nelle vigilie elettorali, occupando l’intera ala di un ospedale, un reparto con pochi ammalati e tante stanze libere, ed erano quelle le volte in cui il senatore appariva rasato, con un bel pigiama di seta a righe, con gli occhi finalmente aperti e la gola che non gli faceva più male. Spesso riusciva ad astenersi anche dall’andare in bagno, indaffarato com’era a ricevere amici e regali, la moglie e i figli, il prefetto e certi deputati.
Vestito da convalescente, era a suo modo un bell’uomo, l’on. Jaco. Sorrideva, persino, ma non tanto, e ascoltava moltissimo, dando poche risposte, in modo avaro, come un emerito specialista nel momento del fatidico responso. Ma di che cosa si ammalava, il senatore, ogni qualvolta avrebbe dovuto battere a tappeto il territorio del suo collegio elettorale? Eppure, in quel territorio dove si assentava alla vigilia delle elezioni, ritornava dopo essere stato rieletto al primo posto della lista, partecipando alle mille feste date in suo onore nelle case dei ricchi del paese e nei più lontani ovili degli allevatori di bestiame e dei padroni di greggi.
Col tempo, il cavalier Gribaldi aveva capito tante cose di quell’uomo misterioso che qualcuno chiamava il Cinghiale. Che quell’ufficio era come una tana, e che quell’uomo aveva bisogno di quel tempo lungo e inesplicabile di cuccia e di visite in bagno per covare il suo mito di uomo temuto e inarrivabile, ricchissimo e spaventosamente parsimonioso. La spesa più rilevante di quell’ufficio era la bolletta dell’acqua, che arrivava due volte l’anno, giacché quella del telefono non arrivava mai, anche se il telefono veniva comunque usato, raramente e soltanto per sollecitare le telefonate degli altri. Non arrivava neanche la bolletta dell’energia elettrica: per caso l’onorevole la ricavava da qualche altro locale segreto che egli non aveva mai visto? Era un sospetto avvalorato dagli strani rumori soffocati che provenivano dal sottotetto [...].

L’ultimo dei muckrakers. Una volta avevo definito Pino “l’ultimo dei muckrakers”, ma sapevo che la definizione non gli era piaciuta per niente, forse per via di una certa ambiguità del termine; e poi i muckrakers non piacevano neanche a Theodore Roosevelt, che soffriva di attacchi d’asma, soprattutto per le “esagerazioni” di chi a furia di pulire, spazzare e rastrellare il muck, insomma a furia di guardare per terra, non alza mai gli occhi al cielo e non vede le cose belle, “le cose buone dell’America”. Ma io mi riferivo alla migliore tradizione dei muckrakers americani, giornalisti-scrittori-agitatori che impugnavano il rastrello (rake) per spazzare il letame (muck) che insozzava la nazione americana. Giornalisti investigatori che, a cavallo tra il 1800 e l’inizio del 1900, denunciarono le condizioni di vita nei quartieri poveri, nelle industrie, nelle miniere, lo sfruttamento minorile, eccetera: accusati di essere “socialisti” e “comunisti”, quei primi muckrakers furono i progenitori del giornalismo progressista americano contemporaneo, da quelli del Watergate Bob Woodward e Carl Bernstein, passando per l’avvocato esperto di diritti dei consumatori Ralph Nader, sino a Michael Moore. Insomma, mi ero soltanto appoggiato a una limpida definizione di Beniamino Placido: “I muckrakers sono innanzitutto dei giornalisti, sono in secondo luogo dei buoni americani scandalizzati, sono in terzo luogo dei buoni giornalisti scandalizzati che denunciano le cose scandalose dell’America”. E, per me, Pino era questo: innanzitutto un giornalista, in secondo luogo un buon sardo scandalizzato, in terzo luogo un buon giornalista scandalizzato che denunciava le cose scandalose della Sardegna.
Però, vada per il giornalismo investigativo e di denucia e per il rastrello (rake), avrà pensato Pino, ma che ci azzecca il letame (muck)? Analizzare meticolosamente i documenti del Palazzo e la teologia del sottogoverno non è frugare nel fango: è creare un’informazione alternativa. E poi, insomma, Pino era così elegante, raffinato, tanto da rischiare una leggera punta di dandysmo. Altro che fango. Persino il sindaco di Sassari, nella sua commemorazione, lo ricorda così: “Chi lo ha conosciuto non può che ricordarlo come persona elegante nel vestire, nel porgersi, curato e raffinato nella vita e nella professione, dotato di profonda cultura e di penna sottile ed attenta sempre pronta a pungere e graffiare. Era capace di porre all’intervistato le domande più cattive con una cortesia disarmante e spesso premettendo: se vuole, può non rispondere a questa domanda…”.
Certo, si potrà dire che la vernice di raffinatezza ingabbiava una natura maddalenina e canaille, fiera e rude. Un mix di toni più da romanzo picaresco, che da letteratura americana. Del resto, immagino che a Pino, del giornalismo americano, così lontano, importasse poco. Nel senso che lui si sentiva più vicino alle vecchie formule (in formato lenzuolo) dell’Espresso e del Mondo, con un pizzico dell’ABC di Bianciardi. Però, se proprio dobbiamo fare riferimento a una tradizione europea, io dico che Sassari Sera aveva molto in comune con lo stile da hebdomadaire satirico del Canard Enchainé. Come si può evincere dal pezzo che ripropongo qui: comparso in un libro pubblicato diversi anni fa, è firmato da un’altra persona, ma è stato scritto dallo stesso Pino (che svolgeva, così come fanno altri bravi giornalisti, anche una discreta attività di consulenze e ghostwriting). Insomma: è Sassari Sera visto da Pino.

TALKING SASSARI SERA.
[...] Sassari Sera nasce come reazione al monopolio dell'informazione in Sardegna. Si propone ai lettori come periodico (quindicinale): quasi un riassunto ragionato delle notizie omesse dai due quotidiani dell'Isola. Questa sua caratteristica - l'informazione basata sulla disinformazione calcolata dei quotidiani esistenti - ne fa un giornale specializzato su ciò che succede nel Palazzo. Storicamente e giornalisticamente sfrutta il momento in cui alcuni uomini politici sardi divengono protagonisti della vita nazionale. Ideologicamente (non solo, ma anche nello stile) ha come punto di riferimento gli organi della sinistra radicale (Il Mondo, l'Espresso): ne subisce, ritrasmettendole, le tensioni sui grandi temi della moralizzazione della vita pubblica.
In Sardegna trova terreno fertile individuando nella condotta della classe politica e nell'utilizzazione dei centri decisionali (Regione, comuni, province, enti pubblici) comportamenti improntati all'arbitrio e all'abuso di potere. La denuncia di fatti gravissimi, occultati dal silenzio della stampa quotidiana, interrompe un costume di omertà e di connivenza. Centinaia di lettori, decine di intellettuali emarginati, uomini politici accantonati dal ricambio generazionale dei partiti, vedono questo giornale come un'occasione di rivincita morale e di ristabilimento del rapporto fatto accaduto-verità narrata.
Linguaggio e titolazione sono improntati all'irriverenza verso i potenti di turno, alla trasgressione verso i rituali del potere. Il fatto politico è visto esclusivamente sotto l'aspetto del costume. Il motore della storia non è la politica in senso astratto, ma gli uomini che fanno la politica: nella loro fisicità e quotidianità, nelle loro abitudini e frequentazioni, nella loro banalità elettoralistica e nelle loro ambizioni culturali. Viene coinvolto, in questo giornalismo d'irrisione e di demistificazione (Sassari Sera fa largo uso del disegno caricaturale come satira politica), un mondo di personaggi e di valori prematuramente consegnati alla storia e alla rispettabilità.
La reazione più violenta viene dai giornali quotidiani che bollano Sassari Sera di qualunquismo e scandalismo. All'inefficacia di questa catalogazione segue una serie calcolata, scientifica quasi, di querele per diffamazione che si risolvono puntualmente in altrettante vittorie giudiziarie. La stampa quotidiana viene rimproverata dai suoi lettori "di aver taciuto fatti e avvenimenti realmente accaduti, la cui gravità ha trovato riscontro nelle aule dei tribunali che hanno mandato assolto il giornalista che ha avuto il coraggio di raccontarli".
Le querele dei centri di potere contro Sassari Sera finiscono col fare da cassa di risonanza presso quell'opinione pubblica che non acquista il giornale, dilatandone interesse e tiratura. Le vicende giudiziarie contro questo periodico finiscono per accreditarlo presso strati pigri dell'opinione pubblica e cerchie ristrette di opinion maker delegati dal regime politico dominante a camuffare i misfatti in immagini di rispettabilità. La strategia successiva è quella del silenzio, della non-citazione, del black out. Il "giornalaccio" marcia per almeno venticinque dei suoi quarant'anni come foglio clandestino, che si compra di nascosto e si tira fuori in pubblico al momento della resa dei conti tra fazioni. "Ti hanno dato del ladro e non hai manco querelato". "Queste cose le ha scritte Sassari Sera dieci anni fa e nessuno è intervenuto". Nonostante la congiura del silenzio, dalle denunce di Sassari Sera scaturiscono inchieste giudiziarie e procedimenti contro personaggi pubblici che escono dalla scena politica.
Intorno al '75, nel clima di permanente scandalo nazionale in cui vive l'intero Paese, grazie anche a un tipo di controinformazione di cui (in versione provinciale) Sassari Sera è tra gli anticipatori, il periodico sassarese (che è il giornale estensivamente più letto in Sardegna), non potendo più offrire un'emozione dentro ogni notizia, punta a una specializzazione, scegliendosi il lettore tra gli addetti al Palazzo [...].

Notizia non olet? Sì, no, forse. Anni fa (era il 2000, se non ricordo male), un amico mi segnalò uno strano accadimento: il quotidiano di Sassari La Nuova aveva pubblicato un pezzo su Pino Careddu, in occasione del quarantennale della sua storica testata. Che cosa c’era di strano? C’era di strano che tra certi giornalisti non correva buon sangue: vuoi perché Pino aveva il vizio di pestare - generalmente con ragione - anche su alcuni colleghi, vuoi perché il quotidiano di Sassari passato al gruppo Caracciolo, e poi al gruppo L’Espresso, aveva la puzzetta al naso (ma non l’aveva, evidentemente, quando nel suo consiglio d’amministrazione sedeva Flavio Carboni) e considerava Sassari Sera un giornale “scandalistico”. Perciò quell’uscita ci colse tutti di sorpresa, ma, per quanto mi riguarda, sino a un certo punto: l’intervista era di un cronista di razza, Fiorentino Pironti, che allora era vice direttore della Nuova, in seguito direttore della Gazzetta di Reggio, e alla fine direttore dell’Agl, l’agenzia che fornisce l’informazione nazionale alle testate Finegil, società di testate locali L’Espresso. Insomma, un giornalista di tutto rispetto. L’intervista mi era piaciuta, ma con qualche riserva, su cui vorrei ragionare brevemente. Non per qualche difetto dell’intervistatore (ci mancherebbe: Pironti è un eccellente giornalista; e poi, insomma, il mio primo e unico pezzo da prima pagina è stato proprio lui a pubblicarlo, bontà sua, quando era a capo delle Province nella Nuova...). Ma perché alcuni passaggi dell’intervista andrebbero spiegati meglio. Perciò riporto quell’intervista (si intitolava “40 anni da giornalista contro”) e poi facciamo qualche riflessione.

40 ANNI DA GIORNALISTA CONTRO.
Quante querele per diffamazione ti sei beccato in 40 anni?
Oltre duecento, e devo dire che ho un bilancio positivo di assoluzioni.
E quante per violenza?
Già, qualche volta sono volati anche schiaffi. Ma per me lo schiaffo non è violenza fine a se stessa, è soltanto una misura pedagogica.
Mi racconti la tua carriera di giornalista?
Comincio alla Nuova, come vice corrispondente dalla Maddalena. Prendo il diploma magistrale nell'isola e mi iscrivo all'università a Sassari. Studio e collaboro alla terza pagina della Nuova allora affidata ad Angelo Giagu. Mi propongono di insegnare in una scuola dell'Etfas, quindi Nino Giagu mi convince a spostarmi al Corriere dell'Isola, il secondo quotidiano di Sassari, organo più o meno ufficiale della Dc.
Si racconta che scegliesti uno strano modo per dimetterti…
Già, mollai due schiaffi a qualcuno e via.
Siamo alla nascita di Sassari Sera.
La storia è questa. Siamo nel 1960. Il Banco di Sardegna sta crescendo a dismisura (anche perchè custodisce nelle sue casse i 400 miliardi del primo Piano di rinascita) e decide di sbarcare sulla penisola, precisamente a Genova. Uno dei primi clienti della nuova filiale è tale Delfino, importatore di cacao, che ottiene un fido di 500 milioni. Il successivo crack dell'imprenditore è devastante: Delfino scappa in Sudamerica, il Banco è nei guai. La notizia viene tenuta segreta, ma il caso esplode quando Delfino rientra in Italia e viene arrestato. Ci ritroviamo in tre (Antonio Simon Mossa, Roberto Stefanelli e io) a lottare per far uscire questa notizia. Niente da fare.
E così decidete di fare un giornale.
Il primo numero di Sassari Sera è una bomba. La notizia della truffa del cacao fa il giro d'Italia, mettiamo a nudo l'apparato di potere della Dc sassarese che ha il suo braccio economico nel Banco di Sardegna.
Uno scoop da quante copie?
Mille la prima mezz'ora, e poi via via le altre edizioni.
E poi?
Nell'ordine: veniamo denunciati per stampa clandestina in quanto nella fretta ci siamo dimenticati di registrare la testata in tribunale; la tipografia Gallizzi si rifiuta di stampare il secondo numero; i servizi segreti fanno irruzione in redazione alla ricerca di un documento che dimostri la nostra connivenza con Bourghiba. Insomma, ci rendiamo conto di averla combinata grossa.
Un disastro.
Aspetta, non è finita. Io nel frattempo avevo vinto il concorso per un posto da funzionario del Provveditorato agli studi: nel giro di un paio di giorni vengo trasferito a Viterbo per qualcosa che somiglia all'incompatibilità ambientale.
Insomma, sei nel classico mare di guai. Dunque, parti…
Manco per sogno! Non parto, rinuncio a tutto. Pensa che non ho mai avuto la liquidazione.
Va bene, resti a Sassari e continui la tua battaglia. Sassari (ma forse sarebbe meglio dire la Sardegna) che è completamente nelle mani dei Giovani turchi.
È il momento in cui la classe politica sarda cresce sull'onda della riforma agraria voluta da Antonio Segni. Viene fondato l'Etfas, che i maligni chiamano Ente Truffa, fondata da Antonio Segni, che occupa sei-sette mila dipendenti e costa un centinaio di miliardi del tempo. Si stipendiano i funzionari per fare politica, si crea una classe dirigente che dovrebbe far diventare la Sardegna una seconda California.
Tu fai parte dell'apparato.
Sono il loro modesto ghost-writer con qualifica di addetto stampa. Li vedo crescere sempre più potenti, sempre più arroganti. Diventeranno i bersagli delle mie denunce su Sassari Sera.
E come reagiscono?
Normalmente querelano. Memorabile quella di Francesco Deriu, allora assessore regionale, che, in piena campagna elettorale, spedì 100 mila santini con i francobolli comprati dalla Regione. Lo scrissi, e lui mi portò in tribunale.
E Cossiga?
Nel pieno di non ricordo più quale campagna di stampa, ci incontrammo in piazza d'Italia. Pino - mi disse - ti invito alla moderazione. Come sai Sassari è una città molto cattiva.
Perchè fallisce la riforma agraria?
A parte gli imbrogli e i misteri, soprattutto per tre motivi: mancanza d'acqua, tecnologia fondata su avanzi di magazzino americani, produzione su modello economico sovietico.
Ma nel frattempo incalza la chimica.
E si concretizza in Sardegna il compromesso storico. La DC chiama Rovelli per perpetuare il suo potere con i soldi della chimica, il Pci vede nel contadino o nel pastore che diventa operaio un potenziale iscritto alla Cgil. Rovelli è un grande industriale, possiede tecnologie d'avanguardia (vedi i primi dissalatori) e sta al gioco di una classe politica pronta a foraggiarlo e a ottenerne a sua volta finanziamenti.
E il compromesso storico?
Continua. Basta vedere come i Ds si sono buttati sugli avanzi della Dc.
Ad esempio?
Il Banco di Sardegna. Lorenzo Idda, ai tempi dell'Etfas giovane allievo del presidente Pampaloni, arriva alla presidenza del Banco perché amico di Cossiga. Questa amicizia sarà la sua fortuna e la sua tomba: non appena gli ex Pci decidono di colpire Francesco, fanno saltare per aria il suo amico. Questa è la verità.
Perchè odi Cossiga?
Ma non lo odio, e lo sa anche lui. Io lo considero al di sopra di tutti, un prodotto da antropologia politica. Sbaglia per eccesso di autostima, però devo dire che finora gli è andata bene. Sai cosa penso? Se gli avessero detto che la politica è un lavoro, avrebbe smesso immediatamente. Ci siamo visti poco tempo fa, e devo confessarti che ero piuttosto imbarazzato. Ebbene, mi è venuto incontro a braccia aperte, è stato affettuosissimo, lasciando di sasso molti del suo codazzo. Altro che odio!
E Lorenzo Idda?
Siamo stati amici per 30 anni, poi ha preteso di revocare il mio diritto a scrivere di lui. Punto.
Adesso ti collocano in area sardista…
Sarà perchè sono buon amico di Giacomo Sanna. Ma io ero e resto un laico, un libertario di cultura socialista.
Non a caso sei anche massone.
Da quando avevo 22 anni. Allora la redazione di Sassari Sera era in via Usai, dove ora vendono la fainè, e tutte le mattine alle 6 passavo davanti al negozio di Bruno Mura. Mi fermavo a chiacchierare, si parlava soprattutto di Garibaldi, e quel grande uomo scoprì in me tutte le caratteristiche del massone. Rimasi in massoneria fino alla fine degli anni '70.
Anche stavolta uscisti a suon di schiaffi?
No, stavolta no. Scoprii che un notabile dc iscritto alla massoneria aveva anche la tessera del Msi. Un fascista tra noi, a suo tempo perseguitati da Mussolini, era intollerabile. Preparai una tavola d'accusa ma fui messo in minoranza. Me ne andai.
E quindi? Non sei più massone?
Resterò sempre massone, anche se adesso sono "in sonno", cioè non pago le quote e non frequento la loggia. Ma lo spirito di tolleranza e solidarietà animerà sempre la mia vita.
Lo sai che qualcuno ti definisce un ricattatore?
Lo so, figurati se non lo so, ma lo trovo quasi fisiologico. Ti ho detto prima che ho collezionato oltre 200 querele per diffamazione, qualcuna per i soliti schiaffi, ma mai nessuno mi ha denunciato per estorsione. E poi, sai cosa ti dico: se fossi un ricattatore, sarei ricco o morto come Pecorelli. E io sono povero e vivo.
E la leggenda di Sassari Sera che vive sul ricatto?
È una strumentalizzazione della sinistra che è arrivata al potere e non sopporta che anche ad essa venga riservato lo stesso trattamento che subì la Dc. Questo è il giornale che gestisce le omissioni o le censure dei quotidiani sardi, è il giornale delle lingue tagliate. Se dovessi farti l'elenco dei giornalisti che hanno lavorato per me in incognito…
Non te lo chiedo, so che sei legato a un patto di riservatezza. Però sarebbe interessante un tuo giudizio sui due quotidiani sardi.
L'Unione è un giornale di poteri forti, da "dove il Duce vuole" a "dove Zuncheddu vuole" passando attraverso Grauso. Ha un prestigio legato soprattutto alla tiratura. Trovo che abbia confuso le idee a chi amava Liori. Con la Nuova ho un rapporto di amore-odio. Assolve a tutta una serie di funzioni, ma non mi sembra abbia un'anima. O almeno un'anima sarda.
Chi è il più bravo giornalista della Sardegna?
Manlio Brigaglia, di gran lunga. Non vado oltre, perchè mi obblighi a escludere i presenti.
Basta bottega. E se parlassimo di turismo?
È la terza fase del potere dc. La riforma agraria si fa con Segni-Cossiga alla guida, la petrolchimica ha come protagonista Soddu, il turismo si sviluppa sotto lo strapotere di Giagu che controlla (oltre la Regione) i sindaci della Gallura. Il boom della Costa Smeralda va di pari passo col crollo della petrolchimica e rimodula i codici della politica. Nel 1969 Andrea Raggio (Pci), Armando Zucca (Psiup) e Armando Corona (Pri) incontrano l'Aga Khan che espone il suo piano da mille miliardi e chiede però certezze alla Regione. Tieni presente che lui ha portato danaro in Italia quando tutti gli industriali italiani stanno scappando all'estero; considera che Porto Cervo è stata costruita in gran parte dalle cooperative rosse, che la sede Alisarda è stata lasciata a Olbia contro ogni logica economica.
E perchè non decolla il Master Plan?
Perchè Soddu, tagliato fuori da Giagu, sposa la battaglia ambientalista.
Mi sembra un po' semplicistico.
Certo, ma questo è l'ostacolo iniziale. Il fatto determinante avviene durante il Giubileo degli ismailiti, quando viene chiesto all'Aga Khan di deoccidentalizzare le sue attività. A quel punto comincia il disimpegno, concluso nei giorni scorsi con la messa in vendita di Meridiana.
Sei stato il ghost-writer anche della Costa Smeralda.
Ero e sono grande amico di Paolo Riccardi, licenziato (usa le virgolette) per aver svelato involontariamente il trucco (sempre virgolette) degli aerei in leasing di Alisarda.
A proposito di amici: Armando Corona e Pugliese.
Corona è un grande medico, con una comunicativa e un calore umano veramente straordinari. Lo conobbi durante il processo per diffamazione che mi intentò Berretta (il famoso notabile dc, padrone del palazzo dei pazzi di Solanas) e venne a portarmi la sua solidarietà come assessore regionale alla Sanità. Un grande uomo, a cui oggi pesa essere stato il capo della massoneria italiana. Pugliese lo conobbi in occasione di quell'irruzione dei servizi segreti di cui ho parlato prima. Diventammo amici, lo difesi sul giornale quando lo arrestarono per un reato che non esiste: intermediazione nel traffico di armi.
Sassari Sera ha compiuto 40 anni. Un bilancio del giornale e tuo?
Quello del giornale lo lascio ai lettori. Io mi sento come uno che ha vissuto questa professione in assenza di colpa.
Andrai a vivere da pensionato alla Maddalena?
Intanto non andrò in pensione, e poi non tornerei mai nell'isola. Per i miei compagni d'infanzia sono un rinnegato che è scappato. Ci tornerò, ma per ambientarci un romanzo.
Un giallo, come quelli che scrivi tu per raccontare i misteri a base di incontri clandestini in Portogallo, congiure politiche e ansiolitici?
Sì, qualcosa del genere. O forse no. Chissà.
(Fonte: "La Nuova Sardegna")


Nell’intervista ci sono alcuni punti che andrebbero chiariti. Lascerei perdere la storia dei “ricatti”, perché offende Pino, i molti collaboratori e i lettori del suo giornale. Era un’imbecillità, di cui Pino ha chiarito l’origine.
Merita, invece, qualche riflessione il passaggio dove si accenna a due amicizie di Pino: l’ex capo della massoneria italiana e l’ex colonnello dei servizi segreti. Pino dice: Corona sarà anche stato il capo della massoneria, ma che vuol dire? Era un “grande medico” (e tutti sappiamo quanto Pino avesse bisogno di un buon medico come amico) e un repubblicano, figura laica di primo piano della politica regionale, già assessore e presidente del Consiglio regionale. E allora dov’è il problema, dice Pino. È così scandaloso che tra i molti amici di un giornalista ci sia l’ex capo della massoneria? Io trovo che sia più scandaloso vedere l’Opus Dei, tramite l’ex senatrice Binetti, nel PD dell’ex comunista Veltroni.
Per quanto riguarda l’ex colonnello dei servizi segreti, anche qui Pino puntualizza: un’amicizia nata quando Sassari Sera esce per divulgare una notizia taciuta dagli altri giornali, cioè lo scandalo del Banco di Sardegna. Pino, negli anni Ottanta, prese le difese del suo amico ex colonnello coinvolto nella nota inchiesta del giudice Palermo. Ora, se devo essere sincero, quella “difesa” non mi è mai piaciuta; anzi, lì ho cominciato a disamorarmi un po' di Pino e del suo giornale (Pino aveva i suoi codici, io avevo e ho i mei). Perché, va bene che i protagonisti della vicenda vennero assolti, ma la contrastata e inconcludente inchiesta del giudice ebbe almeno il merito delle rivelazioni su un intreccio di affari raccapriccianti. Con la difesa, legittima, di un suo amico, Pino rischiava di difendere, diciamo di sponda, anche altri personaggi tutt’altro che limpidi. E, comunque, quelle storie ritornano nei suoi primi libri, anche se riproposte in chiave romanzesca. Le ho rilette velocemente, e mi sembra che Pino non abbia fatto sconti agli altri protagonisti: insomma, credo che abbia chiarito a sufficienza.
Che Pino fosse un giornalista informato e documentato, soprattutto quando Sassari Sera faceva giornalismo investigativo, lo sapevamo tutti. Che a volte le sparasse grosse, anche questo lo sapevamo tutti: ma quegli eccessi erano, non dico perdonati, ma giustificati perché rientravano nella satira, nei pezzi di costume, nello sberleffo, nell’irriverenza, tutte caratteristiche note e accettate dai lettori di Sassari Sera: con quel direttore così poco tradizionale che arrivava a mettere qualche fondoschiena femminile al posto della faccia dei politici regionali, potevi aspettarti di tutto. Per gli uomini de panza, per la Dc e il Pci, Sassari Sera era un giornalaccio che diffamava le istituzioni; per noi lettori, era l’unica speranza di controinformazione in un paesaggio editoriale, come quello sardo, piegato al potente o al colonizzatore di turno.
E a proposito di controinformazione: quando il lettore legge del giornalismo investigativo, quello vero e sempre più raro, raramente si chiede come il giornalista abbia ottenuto le notizie. Se il giornalista è credibile, se i fatti sono documentati, se l’inchiesta ha come primo risultato la scoperta di una verità importante, al lettore non interessa se quello che legge è il risultato di una guerra tra fazioni o poteri antagonisti, non gli importa dei contatti, delle frequentazioni, delle amicizie che hanno portato il giornalista a svolgere sino in fondo il suo lavoro. Gli interessa la notizia. In questo senso, non so se ingenuamente o meno, per molto tempo non mi sono mai permesso di giudicare le amicizie o le frequentazioni di Pino, pensando che un giornalista “scomodo” debba coltivare, necessariamente, amicizie altrettanto “scomode”. Quando l’ho conosciuto, avevo la percezione di un suo codice d’onore che mi metteva al riparo da molti dubbi. Pino non era in vendita, aveva portato avanti delle battaglie importanti, e questo mi bastava.
Intorno al ‘68, Gian Giacomo Feltrinelli era stato in Sardegna: voleva incontrare Mesina. I servizi segreti erano in allarme. Come raccontò lo stesso Mesina, che allora era un ricercatissimo latitante: “All’inizio del ‘68 il colonnello Massimo Pugliese, del Sifar, chiese di incontrarmi: gli risultava che armi sarebbero state sbarcate in Sardegna per favorire il separatismo”. Mesina disse di non aver mai incontrato Feltrinelli, ma ammise di aver incontrato il colonnello, che allora era responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari. L’incontro, effettivamente, ha luogo. Per quanto ne so, il colonnello venne accompagnato da due giornalisti. Di uno, posso dire che non era un giornalista della carta stampata, adesso è vecchio ed è considerato il decano dei cronisti sardi; l’altro era Pino. Perché Pino era un combattente che si metteva in gioco, era presente, nel selvaggio Supramonte come nelle sale stampa della Regione e dei consigli comunali; era dentro la notizia; sia nei primi anni di Sassari Sera, quando si occupava di cronaca; sia negli anni in cui il giornale comincia a dedicarsi alla controinformazione sulle cose del Palazzo. Quando Pino si metteva in gioco, nelle sue battaglie giuste o sbagliate, lo faceva senza remore. Pino non era ricco, e, per scelta coerente con il suo carattere legnoso, refrattario a qualsiasi genere di casta, compresa quella dei giornalisti, non godeva di nessuna pensione. Credo che, negli ultimi anni, gli fosse rimasta soltanto la casa in cui viveva. Qualche anno fa parlai con un amico comune, che mi disse, a proposito del suo accanimento contro il nuovo potere regionale: “Se continua così, rischia di perdere anche la casa”. Ma chi poteva fermare quell’uragano di Pino?
Quando oggi leggo una bella inchiesta, una di quelle inchieste che rimuovono la patina dell’informazione velinara, penso a Pino e come lettore mi sento un po’ in colpa. Perché l’azione del lettore è una non azione: sedersi, aprire il giornale e leggerlo. Quella del giornalista, invece, è un’azione dinamica e scomoda: è lui che si espone, che si mette in gioco, e che, alla fine della giostra, deve restare in piedi, sempre che abbia allenato il senso dell’equilibrio.
Il resto, la storia del giornale “scandalistico”, le puzzette al naso, ignorare in modo deficiente il ruolo svolto in quasi cinque decenni da Sassari Sera, sono soltanto seghe di vuoti a perdere. Quella lunga storia finisce qui, con la morte del suo fondatore e “scomodo” direttore. Io perdo un riferimento importante della mia giovinezza. I lettori sardi perdono quel giornalista che, qualche anno fa, un collega dell’Ansa - cioè un cronista, non uno dei centomila opinionisti e finti inviati e avariati speciali che annacquano i giornali italiani - definiva così: “Pino Careddu con la sua Sassari Sera riesce ancora a scuotere i palazzi della politica e dei potentati economici con le sue indiscrezioni e ricostruzioni dei retroscena di tante piccole e grandi vicende, gettando un sasso nelle acque stagnanti dell’informazione tradizionale”. Queste tre semplici righe di cronaca, scritte da un suo collega di Cagliari, mi sembrano il più limpido riconoscimento del lavoro di Pino, il modo più corretto per ricordare un grande giornalista-agitatore e scrittore: caro Pino, non puoi immaginare quanto ci manchino le tue acque agitate.
Gaspare Giua

Aggiornamento.

Dopo la scomparsa di Pino, la Fondazione Sassari Sera e Confindustria Nord Sardegna hanno istituito il "Premio giornalistico Pino Careddu", che nel corso degli ultimi anni è stato assegnato a diversi giornalisti particolarmente attivi nel giornalismo d'inchiesta, tra i quali:

Lirio Abbate, giornalista investigativo che vive sotto scorta, direttore de L'Espresso e inviato di Repubblica, nel 2014 Reporter senza frontiere lo ha incluso nella lista dei "100 eroi dell'informazione nel mondo".
Luigi Offeddu, inviato speciale del Corriere della Sera.
Domenico Quirico, reporter e caposervizio esteri de La Stampa, inviato di guerra in molte parti del mondo.
Gian Antonio Stella, inviato ed editorialista del Corriere della Sera.
Fabrizio Gatti, inviato de L'Espresso, scrittore, abile giornalista sotto copertura in molte memorabili inchieste.
Milena Gabanelli, giornalista e conduttrice televisiva, in passato inviata di guerra, ha introdotto in Italia nuovi canoni del videogiornalismo; autrice di Report, diventato il più noto format di giornalismo investigativo in Italia.